51° CONGRESSO NAZIONALE DELLA FUCI - SALERNO

Di Patrizia Pastore e Sandro Maria Campanini

Relazione introduttiva della Presidenza nazionale




Un sincero grazie a tutti voi che siete giunti – molti sono ancora in viaggio – nella splendida Salerno che ci accoglie con l’ospitalità, il calore, e la simpatia che colorano da sempre questa terra. Rivolgiamo il nostro saluto e ringraziamento ancora una volta a Mons. Guerino Grimaldi, e con lui alla comunità ecclesiale che ci accoglie fraternamente, all’Azione Cattolica diocesana, alle autorità politiche ed istituzionali, alle rappresentanze civili qui presenti a testimoniarci attenzione e interesse.

Naturalmente il nostro ringraziamento va anche all’Università di Salerno che ci ospiterà domani, ai suoi studenti, docenti e al Magnifico Rettore. Infine, il nostro grazie di cuore lo rivolgiamo ai fucini di Salerno e della Campania che con spirito di servizio si sono impegnati per la realizzazione del nostro cinquantunesimo Congresso. Ci ritroviamo dopo più di un anno dal Congresso Straordinario di Brescia, con un congresso per così dire interno, che ha sparso semi nuovi nei solchi della storia che ci appartiene.

Se a Brescia la FUCI si era radunata per ridefinire la sua proposta per gli universitari degli anni ‘90, tradottasi in un documento finale, ci troviamo ora qui per riaprire uno sguardo ampio sulla realtà, nel tentativo di giungere a nuove comprensioni e a nuovi impegni.

Se siamo convenuti a Salerno, in una città importante del Mezzogiorno non è infatti solo per parlare dei pur gravi problemi che lo affliggono, ma per iniziare da questa terra di incontro fra civiltà un itinerario di ricerca attraverso le molteplici sfide che il contesto ci pone. Guardiamo al Mezzogiorno come a un laboratorio di futuro: di futuro suo, innanzitutto, ma anche del Paese. Siamo altresì convinti, come abbiamo sostenuto nella recente Assemblea Federale di Roma, che la questione meridionale sia sempre più una questione nazionale che impegna tutti nella ricerca di soluzioni nuove.

Da Brescia a Salerno, passando per i convegni nazionali di Genova, Milano, Messina, Roma, Parma. Essere nella FUCI è accogliere e lasciarsi accogliere, accettando di aprire il cuore e l’intelligenza alla novità. Anche il viaggiare su e giù per la penisola è una ricerca, la ricerca di sé nel volto di altri che sembrano lontani. Vogliamo essere come Chiesa piccolo segno di quella comunione che non cela artificialmente i conflitti e le tensioni ma che si pone a un livello più profondo, ulteriore. Distanza e prossimità: verso l’altro tra differenze e nuovi soggetti. Il titolo che abbiamo scelto per il nostro congresso, come ogni titolo dei congressi della FUCI, sembra fatto apposta per essere spiegato...

Distanza e prossimità sono dimensioni che emergono nell’analisi della realtà in cui viviamo sia in termini geografici e culturali che per così dire esistenziali. C'è una distanza tra popoli e nazioni, tra Nord e Sud del mondo che sembra incolmabile; eppure, l’incontro tra civiltà, cultura e religioni si fa proprio nel nostro continente sempre più intenso. Non solo: oggi riusciamo ad essere presenti contemporaneamente ovunque grazie allo sviluppo delle comunicazioni, in realtà fino ad ora poco conosciute; anche se questo rischia di creare in noi una falsa convinzione di conoscenza e di oggettività. D'altra parte, la prossimità come semplice coabitazione non annulla quella distanza che segna oggi molti dei rapporti umani, che ci rende estranei anche coloro che mettono in crisi i nostri equilibri e le nostre sicurezze con le loro differenze. Non schiacciamento, annullamento ma comunionalità di ricchezze e sfide.

Un orizzonte che investe il singolo e l’intera società, ma che diventa vero e proprio impegno per i cristiani: farsi prossimo è farsi carico dell’altro, rispettandolo nella sua originalità. È stato scritto a proposito del pensiero di Lèvinas: “La lontananza o differenza fra i soggetti si trasforma in prossimità, in vicinanza che non tende ad assimilare l’altro ma ne riconosce e rispetta il diritto in quanto altro” (A. Delogu).

Tra differenze e nuovi soggetti: quali i nuovi soggetti che emergono nello scenario in mutamento? Sono quelli che esprimono una istanza di piena cittadinanza, di responsabilità articolata e diffusa, che richiamano a una rinnovata qualità della vita. E, accanto, soggetti non più nuovi sulla scena sociale ma portatori di ulteriori sfide: pensiamo al soggetto femminile, alla realtà giovanile, alla provocazione dei nuovi ultimi. Ma l’orizzonte della prossimità travalica l’ambito del nostro particolare. La nostra identità si gioca ormai su un piano europeo, ed è da questo livello che occorre partire. Se dovessimo indicare alcuni aspetti primari del contesto europeo in cui ci troviamo ne evidenzieremmo tre, rimandando per un discorso complessivo alle nostre Tesi.

L’Europa è tale perché conserva dinamicamente la memoria di sé stessa. Non sembri una tautologia: mai come oggi il ricorso alla memoria storica, alle multiformi radici della nostra civiltà si fa indispensabile per ricomprendere e ridefinire l’identità europea. Paesi usciti dalla cortina di ferro reclamano la loro piena cittadinanza nel continente, interrogando lo stesso assetto dell’Europa dei dodici; religioni e culture si confrontano riscoprendo l’apporto dato da ognuna alla definizione, tra grandi incontri e profonde lacerazioni, dell’uomo europeo. Eppure, al crepuscolo della modernità, il soggetto europeo conosce una crisi che è crisi di coscienza di sé, che è crisi di futuro. La provocazione dei particolarismi e l’incontro con culture “altre” sfidano profondamente l’identità europea a ritrovare sé stessa, a elaborare nuove sintesi. C'è, spesso, l’impressione che la paura del nulla possa prendere il sopravvento, ed esasperare conflitti per creare nel conflitto stesso identificazioni tanto povere di senso quanto pericolose. Ripensare l’Europa è anche ridefinire fra memoria e mutamento un'identità, è ripensare quella società aperta, quella capacità democratica che costituiscono un patrimonio prezioso della modernità sperimentata nel vecchio continente. È a partire da questo che acquista valore il dibattito sul quadro politico-istituzionale in via di definizione, disegnato spesso dall’informazione più stereotipi che sull’analisi dell’evoluzione reale.

Siamo tutti europeisti, e la parola Europa sembra essere chiara a tutti, come un avvenire capace di dare senso e significato ad ogni fatto che avviene nel nostro paese. Non si dice abbastanza sulle realtà, sia positive che negative, che emergono nel crescere dell’Europa Comunitaria.

Chi ha avuto il coraggio di dire che a detta dei maggiori esperti istituzionali europei, l’Europa esce da Maastricht meno democratica, a causa di un meccanismo decisionale più farraginoso e quindi meno trasparente? Certo la costituzione della Banca Centrale Europea e della moneta comune è un fatto importantissimo per lo sviluppo di politiche comuni, ma altrettanto vero è che nel fare ciò si trasferisce sovranità a Bruxelles e dunque si deve pretendere efficienza e trasparenza negli organi comunitari.

E neppure è stato sottolineato che nel campo della tutela dei diritti ci troviamo di fronte contemporaneamente alla mancata firma da parte della Gran Bretagna della carta sociale nel1990 e del nuovo protocollo d’azione sociale a Maastricht. Inoltre, nuove direttive comunitarie sui diritti dei lavoratori lasciano più spazio di prima ad un regresso legislativo nei paesi più avanzati della CEE, piuttosto che aprire al miglioramento nei paesi meno avanzati.

Infine, per ciò che ci riguarda, nulla si sa sulla riforma dell’articolo 128 del trattato di Roma, che finalmente ha inserito l’educazione e la gioventù fra le materie di competenza comunitaria; del resto cosa interessa realmente dei giovani ad un paese che è l’unico in Europa a non avere un coordinamento delle politiche per la gioventù? – In ultimo, la stessa dimensione europea è sfidata dai fenomeni di interdipendenza, che ne influenza la stessa collocazione. Nelle Tesi abbiamo sostenuto che l’interdipendenza si pone come “crescente internalizzazione dei processi politici, economici, scientifici, tecnologici, della produzione e della trasmissione del sapere”. Abbiamo parlato di “interdipendenza imprevista” perché essa non è più definibile attraverso la logica dei blocchi contrapposti ma si libera in più direzioni, attraversando stati e continenti, aprendo la strada a futuri scenari di progresso sociale ed economico ma anche a imprevedibili conflitti economici e militari. Anche le attuali tensioni del mondo arabo ci interrogano a questo riguardo.

Volgiamo ora lo sguardo alle sfide poste alla Chiesa in Europa. L'evento del Sinodo dei vescovi ha messo in luce tutte le potenzialità ma anche tutta la problematicità da un lato insite nel nuovo contesto europeo. Riscontriamo da un lato l’entusiasmo per la fine dei regimi totalitari e per la ritrovata libertà religiosa, lo slancio missionario, la speranza di crescita e civile nei paesi dell’Est. Dall'altro, la tentazione di colmare con l’apporto religioso un vuoto che è anche politico e culturale; l’assenza dei paesi dell’Est di una diffusa e strutturata esperienza ecclesiale; la difficoltà a trovare un linguaggio anche teologico comune tra cristiani dell’Est e dell’Ovest, alle prese con problemi diversi. Infine, si aprono in tutta la loro complessità i problemi del dialogo ecumenico, specialmente con la Chiesa ortodossa, di cui il Sinodo e i successivi incontri sono una testimonianza. Tre possono essere le sfide decisive: innanzitutto, secondo un’espressione del card. Martini “siamo invitati a testimoniare che il Vangelo può essere vissuto in pienezza anche in una società moderna, complessa e tecnologicamente avanzata come la nostra"; occorre essere promotori di solidarietà e di convivenza pacifica nelle situazioni di divisione e di crisi sociale ed economica; infine, va intensificato il dialogo ecumenico per una ricerca di amicizia e di unità nelle differenze che è segno profetico di comunione. A tutto questo si aggiunge l’impegno nel dialogo interreligioso che assume oggi un valore ancora più decisivo che in passato e che richiama tutti a una maggiore cultura religiosa delle fedi non cristiane. Ci chiediamo ora come essere protagonisti nei tre ambiti privilegiati del nostro impegno di formazione e missione.

I tre luoghi in cui spendere l’identità fucina nella comunità cristiana

Una lettura della situazione

All’inizio di questo decennio, la Chiesa si trova di fronte a uno scenario di difficile interpretazione. Il “fattore religioso” sembra conoscere una nuova importanza, e con esso il ruolo della Chiesa; eppure, si allarga la distanza tra un riconoscimento di valore alla Chiesa come generico punto di riferimento sociale e le scelte quotidiane del soggetto, il suo habitus mentale, i suoi comportamenti. Secondo molte analisi l’indifferenza appare come più difficile da affrontare rispetto all’aperta opposizione che ha caratterizzato altri consensi storici. A un rifiuto esplicito della fede sembra sostituirsi un approccio debole, puramente soggettivo, ma non per questo sostenuto da un impianto razionale. Dalle battaglie su valori in alternativa, si passa a concezioni a-valoriali, senza progetto, senza ulteriorità. Si allarga lo spazio delle visioni orizzontali, tali nella ricerca del benessere come nella fruizione di beni spirituali o affettivi. Ha scritto Johann Baptist Metz: “Al congedo variamente celebrato della modernità europea si accompagna un nuovo culto del disimpegno, un nuovo mito dell’innocenza (…) Ora le scelte possono essere fatte solo con riserva”. Eppure, la liberazione da contrapposizioni ideologiche libera le potenzialità di un dialogo aperto con le persone. La stessa comunità cristiana vede oggi riconosciuta, in modo meno problematico, la sua legittimità ad esistere ed a operare. L'attenzione riservata ai documenti della Chiesa ne sono una conferma: basti pensare alla diffusione in tutti gli ambienti di un’enciclica come la Centesimus Annus (sono indicativi a questo proposito l’impatto pubblico di questo pontificato ma anche la stima verso le associazioni e l’impegno per gli ultimi, fino all’ora di religione e all’otto per mille: tutti elementi su cui è importante riflettere). La fede, l’apertura al trascendente, il dibattito etico conoscono un nuovo diritto di cittadinanza e su questo occorrerà una attenta riflessione.

Eppure, esiste il rischio di imboccare scorciatoie: preoccupano modelli di appartenenza ecclesiale chiuse al dialogo con la storia e ai suoi protagonisti; preoccupa d’altra parte la diffusione di esperienze di spiritualità in senso lato che puntano sull’appagamento emotivo e psicologico e sulla creazione di mondi sicuri in cui rifuggire. Esperienze di questo tipo, insieme a un’ambigua sete di miracoli (ai farisei che chiedevano segni Gesù risponde: l’unico segno che vi sarà dato sarà quello di Giona!), possono solo apparentemente colmare il vuoto lasciato dalla crisi della razionalità moderna e da quella dei tradizionali sistemi di riferimenti culturali e religiosi. La nostra identità si basa su una scelta religiosa come primato della fede e dell’annuncio, sugli strumenti per affermarli e sulla incidenza sociale, e sulla mediazione culturale come capacità di incarnazione dialogante della fede nella storia. Ma dobbiamo farci carico della necessità di ricollocarle dentro al contesto attuale e quindi in modo dinamico, senza per questo tradirne il senso profondo. Tale sforzo è ancora più urgente riguardo alla riflessione politica poiché nelle nostre comunità abbiamo notato negli ultimi anni una tendenza a sopravvalutare il ruolo della politica come risposta alla crisi dei valori.

Tutti questi aspetti si fanno particolarmente interroganti nei riguardi della condizione giovanile. Secondo alcuni dati, peraltro contradditori, il mondo giovanile conosce una certa riscoperta del fenomeno religioso o del sacro, anche se questo non corrisponde di per sé a un’esplicita adesione alla Chiesa cattolica. D’altra parte, si registra una crescita d’impegno dei giovani nel campo del volontariato, segno importante e profetico di una volontà di condivisione e di servizio verso gli ultimi. Si corre però il rischio che a livello ecclesiale, l’impegno concreto in specifiche strutture metta in secondo piano il diretto e faticoso confronto tra la fede e le sue più immediate implicazioni nell’ordinarietà dell’esistenza. La chiave di volta di questo problema è ancora la formazione alla fede insieme alla pastorale giovanile.

Prospettive possibili

Di fronte allo scenario che abbiamo delineato, indichiamo alcune prospettive che ci sembrano prioritarie.

II primo compito, innanzitutto da parte nostra, consiste nell’attrezzarci culturalmente e spiritualmente per incarnare l’annuncio evangelico nel contesto attuale. Siamo convinti che si possano aprire oggi gli spazi per ritessere circuiti di comunicazione e di dialogo. Non bastano i grandi messaggi, occorre una condivisione e una “sympatia” verso l’altro, soprattutto verso colui che appare indifferente e distaccato ma che forse è disposto più di quanto si pensi ad un confronto. In secondo luogo, urge uno sforzo sul piano della ragione, anche attraverso il confronto su questioni etiche. Infatti, una certa riscoperta del sacro in forme irrazionali non vuol dire di per sé a una rinnovata apertura al trascendente. Su una fede pensante si gioca gran parte della sfida formativa, e questo ci riguarda direttamente come FUCI. Vivere e proporre una fede solida sul piano spirituale e teologico, esigente su quello culturale, capace però di misurarsi con la propria situazione esistenziale e di parlare agli interlocutori che si presentano nella concretezza dell’esistenza: è questo il difficilissimo compito che ci sta di fronte. Ma è quello che ci viene oggi richiesto. Sia chiaro: apertura, accoglienza, condivisione, gradualità non devono scadere in ricerca di facili successi o di proposte di impegno di basso profilo. Occorre invece sapere seminare con fiducia e per il futuro offrendo autentiche occasioni di crescita.

Di fronte alla distanza che separa i giovani dalla realtà ecclesiale, che fare? Sono i giovani credenti che possono testimoniare ai loro coetanei un cristianesimo non certo accomodante però possibile, proprio perché esperito. Occorre puntare ancora e sempre di più sul dialogo fra persone, sull’offerta di luoghi aperti, di spazi comunitari in cui trovare una vita di fede rispettosa e accogliente, capace di gioia sobria e attenta alla serietà dei problemi di ognuno. E che, soprattutto, sappia saper trasparire veramente il fondamento trascendente che la costituisce. Vi è inoltre da ritrovare lo spessore biblico della formazione e della liturgia cristiana. Tale sforzo si fa ancora più importante se si considera che ecumenismo e dialogo interreligioso si giocano in gran parte con un confronto sulla Bibbia e tra essa e i diversi libri sacri. Lo stesso mondo intellettuale riscopre finalmente l’importanza dei testi sacri non solo nello studio delle religioni ma anche più in generale nel loro rapporto con la cultura stessa.

Per quanto riguarda la pastorale giovanile il nostro contributo si deve tradurre ancor oggi nella cosiddetta “pastorale d’ambiente”. Non è una questione da specialisti: essa rimane piuttosto una sfida di fronte a tutta la comunità cristiana. È vivere l’evangelizzazione come capacità di mediare la fede nei luoghi in cui si attua la vita dell’uomo e questo porta a un nuovo dinamismo la stessa pastorale. Che i cristiani non solo si ritrovino nelle comunità originarie, ma si pongano come punto di riferimento aperto nei luoghi in cui si lavora, si studia, si passa il tempo libero, è una prospettiva ancora da sviluppare appieno; così come sono da ripensare molti dei percorsi formativi, che spesso sono concepiti in astratto e non costituiti insieme all’interlocutore che è portatore di una propria situazione vitale. Solo se c’è questa attenzione si possono formare persone in grado di porsi con matura sensibilità cristiana nei diversi ambienti di vita e di fronte ai problemi che questi pongono.

Emerge allora la necessità di verificare due categorie fondamentali della Chiesa post-conciliare, quali scelta religiosa e mediazione culturale. Siamo convinti che da esse non sia possibile tornare indietro. Come disse Bachelet nel 1973, “abbiamo scelto di impegnarci per una radicale risposta di fede nel momento in cui la trasformazione profonda della società ed il processo di secolarizzazione pongono all’uomo le domande ultime. E l’abbiamo fatto tenendo conto che gli stessi cristiani sono chiamati ad una riconquista incessante della loro fede, che non è più sorretta dal costume o dal contesto sociale". La scelta religiosa non significa né disimpegno, né diminuzione della radicalità del Vangelo di fronte alla sete di verità dell’uomo. Al contrario, la sottolineatura del primato di fede ed evangelizzazione comporta un impegno gravoso sul piano della maturazione proprio perché tesa a una mediazione personale e comunitaria tra Parola e storia. La scelta religiosa indica dunque l'essenzialità della vita di fede e della comunione ecclesiale rispetto alle forme ulteriori di impegno nel mondo. Non scelta debole o rinunziataria né apolitica o di chiusura intra ecclesiale. È la chiamata della Chiesa ad essere nel mondo sacramento di una salvezza che non ci appartiene, di seguire la logica della Croce che non ammette posizioni di primizia terrena. Di essere vincolo di comunione fra gli uomini e profezia del regno. Come è fondamentale che maturino vocazioni all’impegno politico, così occorre mantenere salda la visione conciliare, che si fa sempre più attuale in tempi in cui, di fronte alla crisi della politica del nostro Paese, riemerge la tentazione di un coinvolgimento più diretto ed esplicito della comunità ecclesiale. Tale tendenza non gioverebbe né ad essa né alla politica. Rimane in tutto il suo vigore la lezione di un altro suo maestro, Lazzati, che scriveva provocatoriamente nel 1986: “Perché bisogna pur dire che non esiste per sé la politica cristiana, ma la politica è cristiana quando è valida, nel senso che riesce a risolvere i problemi della convivenza umana, della città dell’uomo, della polis insomma, quando sa vederli e risolverli nella luce del bene comune: è il bene di tutto l’uomo e di tutti gli uomini che in quella polis convivono”.

Se è da rifiutare la fuga dall’impegno in politica, va detto che nemmeno la trasposizione di alcuni dall’impegno ecclesiale in campo politico garantisce di per sé una soluzione alla crisi dei valori e del sistema. È inoltre, come enunciato nelle Tesi, è tempo di inventare modi nuovi di fare politica, oltre – più che contro – il tradizionale strumento politico.

Nella città dell’uomo

Una lettura della situazione

Nelle nostre Tesi abbiamo posto l’accento sul soggetto, facendone il costante punto di riferimento della nostra analisi. L'attenzione che soggiace a questa parte è di individuare ed accompagnare questo soggetto nei luoghi e nelle situazioni in cui si forma, agisce e si relaziona. Partiamo allora dalla città, dal luogo in cui questo soggetto acquisisce e matura una sua specifica dimensione, quella di cittadino, vediamo il cittadino muoversi oggi dentro città che non riconducono all’idea di centralità dell’uomo: nelle strutture architettoniche, nel tipo di servizi, negli spazi di lavoro e di incontro, nella scarsità del verde. Il rapporto tra cittadino e la sua città appare in certi casi squilibrato se non addirittura compromesso. Le periferie delle grandi aree urbane diventano un vero e proprio territorio occupato da dominare o un’area in cui da confinanti sopravvivere. Precarietà, invivibilità a tinte forti ma anche un ordinario troppo tranquillamente mal vissuto e vessato richiamano con forza ad una dimensione fondativa del cittadino ossia la titolarità di diritti. È sin troppo facile (ma non così scontato) parlare di negazione dei diritti; sottolineiamo anzi il grave rischio di una grossa confusione a tale riguardo che genera false priorità tra doveri e diritti. Eppure, non possiamo richiamare, e lo facciamo con rispetto e solidarietà anche in riferimento a questa terra, il diritto alla vita e alla sicurezza personale, al lavoro, alla cultura, a una vita dignitosa. Ancora troppe persone muoiono per la mafia, la camorra, la criminalità organizzata, ancora troppi giovani sono in cerca di un lavoro onesto, ancora troppe sono le sfide non raccolte, ignorate, o peggio su cui si specula.

Ampliando lo sguardo sulla realtà politica del Paese ciò che in modo sicuramente differenziato ma evidentemente diffuso si avverte nel nostro Paese è l’ampia e profonda crisi dello Stato, che si fa drammatica nell’esaurimento del rapporto con il cittadino. È innanzitutto nel relazionarsi alle istituzioni che il cittadino oggi avverte un senso di estraneità, di non garanzia, di non tutela e dunque finisce per non vivere appieno la sua dimensione politica. Ed è proprio nei termini della partecipazione che si ha il segno di tale disagio. Questa crisi non ha unici responsabili i partiti e le istituzioni, benché su di essi gravino pesantissime ed ingiustificabili latitanze ed omissioni, ma anche il vuoto di un ruolo non esercitato nella società civile. Questa stenta ancora a ridefinirsi e a riscoprirsi protagonista. Eppure, proprio da essa sono giunti in questi ultimi tempi tentativi, ancora non strutturati, di cambiamento, che richiedono però una assunzione piena di responsabilità.

Sicuramente merita un’attenzione privilegiata anche in questo riguardo la riflessione sulle donne. Certo il dato che emerge al rapporto al loro (nostro) spazio nella vita politica e partitica è preoccupante anche alla luce di queste ultime elezioni che vedono le donne fortemente penalizzate sia nei percorsi e condizioni di accesso alla campagna elettorale sia negli spazi e mezzi concessi dalle segreterie dei partiti che ne pregiudicano in parte il consenso. Questa logica ci pare miope e riduttiva di uno specifico che non solo nella vita politica ma nel vissuto quotidiano, nella “piccola” storia ma “grande” storia del nostro paese ha dato in diverse forme un contributo che purtroppo con altrettante diverse forme, troppo spesso è stato taciuto e mortificato. Pensiamo alle madri, donne che a partire da un disperato amore materno si sono mobilitate per reclamare un intervento in favore dei loro figli tossicodipendenti, alle vedove che escono in prima linea per porre fine a veri e propri stermini; ma anche a tutte quelle donne che ogni giorno si impegnano e contribuiscono allo sviluppo di questa società e a cui viene negata di fatto o comunque osteggiata, una realizzazione anche professionale.

In questa situazione critica si inseriscono i risultati delle ultime elezioni. Certo, c’è una crisi profonda della politica che è crisi di rappresentanza del sistema rispetto al cittadino. Non ci addentreremo nella complessità delle cause che hanno portato alla conclusione di una fase della nostra storia politica, interrogandoci invece sulle possibili linee di sviluppo.

Prospettive possibili

Di fronte a tutto ciò siamo infatti invitati a dare un contributo costruttivo. E questo è il nostro modo di “organizzare la speranza”.

Occorre innanzitutto una riforma profonda dello Stato che ha il suo perno nella riforma elettorale e dei partiti ma che va a toccare l’idea stessa della cittadinanza e il ruolo delle istituzioni, dell’amministrazione, della magistratura. Innanzitutto, le riforme elettorali: purtroppo, siamo ancora a parlarne oggi, a quasi un anno del referendum del 9 giugno. Esso aveva costituito un segnale inequivocabile della voglia di riforme e di cambiamento, cui questa classe politica non ha saputo rispondere, nemmeno col minimo indispensabile, riducendo cioè i collegi elettorali. Il senso di responsabilità consiglierebbe l’uscita di scena di questa classe dirigente. Il voto leghista non può essere interpretato solo in termini di esclusivismo e razzismo, anche se tali componenti ci sono e ci devono preoccupare, ma di contestazione a questo sistema politico. Crediamo in ogni caso che la via da percorrere consista in un sistema che permetta la diretta scelta e alternanza di maggioranze e provochi così il cambio degli apparati di partito. Inutile negare che la nostra attenzione è puntata sull’introduzione di un sistema uninominale e maggioritario temperato da correttivi proporzionali. In secondo luogo, occorre inventare le forme di una nuova cittadinanza. Non si tratta di contrapporre lo stato alla società civile, ma di ripensare il ruolo di questa cornice statuale per massimizzare il ruolo dei cittadini nel loro interno. Essere protagonisti attivi della vita dello stato comporta una responsabilità maggiore: significa farsi promotori della tutela di tutti quei diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi di cui non si riesce a garantire l’effettiva realizzazione. Che al cittadino venga restituito il ruolo di vero protagonista della vita pubblica, con possibilità di reale verifica della stessa, richiede da parte della società civile italiana una maturazione sul piano di una cultura politica ancora troppo legata alle vampate di protesta. Il problema non è la formulazione di singole soluzioni né la semplice critica antipartitica, ma è quello di rendere effettivo e costante un esercizio responsabile di sovranità.

Riteniamo che questa prospettiva assuma una rilevanza strategica anche in relazione al Mezzogiorno, dove continua ad essere forte la componente clientelare del consenso dei partiti. D'altra parte, se è doveroso individuare le responsabilità e chiederne conto occorre diffidare delle improduttive lamentele. Il primo passo per riappropriarsi della propria cittadinanza è rompere il muro del silenzio, uscire da uno stato di soggezione e ritrovare fiducia nelle potenzialità di cambiamento della società civile meridionale, ribellarsi alla logica del favore per ristabilire quella del diritto e della piena legalità. La società civile del Mezzogiorno, come hanno richiamato i Vescovi italiani, conserva valori di solidarietà in grado di costituire la base di un profondo rinnovamento. Le istituzioni possono divenire comprimarie essenziali ma non sostitutive della società civile.

Direttamente coinvolti in questo processo di cambiamento sono i giovani, che più subiscono l’incertezza della situazione con scarsi strumenti per interpretarla. I segnali di ritorno a un impegno più attivo si accompagnano a un senso di estraneità o addirittura di esclusione. Disoccupazione, ancora scarsa formazione, mancanza di valori di riferimento sono fenomeni che incidono pesantemente sulla condizione giovanile. Eppure, sono proprio i giovani ad avvertire la crisi delle nostre istituzioni: e su questa base occorre costruire nuovi canali di partecipazione, con forme di coinvolgimento politico ordinarie – pensiamo al ruolo delle associazioni e della cittadinanza attiva di cui sopra – ma anche attraverso i partiti, ove questi siano disposti a una revisione radicale degli apparati. Occorre per questo formazione politica, a partire dalle istituzioni educative, fino alle forme più spontanee di coinvolgimento. Anche noi, come comunità cristiana e come FUCI, siamo invitati a farci carico di questa esigenza.

Nell’Università

Una lettura della situazione

In questi ultimi anni abbiamo assistito alla conferma di quella crescita di interesse nei confronti dell’Università, ripresa a partire dai primi anni del decennio scorso. La ritrovata centralità dell’Università come principale agenzia formativa post-secondaria non ha però significato l’attuazione di reali cambiamenti della situazione concreta.

Abbiamo l’impressione che anni di dibattiti, convegni, proposte di legge a cui anche la FUCI ha dato il suo contributo non hanno inciso più di tanto nella realtà. È questo nonostante un movimento studentesco che, pur tra tanti limiti, ha posto in fronte all’opinione pubblica il problema Università.

Certo, va riconosciuto uno sforzo legislativo come non avveniva da anni: la legge sugli ordinamenti didattici, una delle più decise innovazioni nel campo universitario, e quella sul diritto allo studio sono state finalmente approvate dopo una lunga attesa. Ma altre leggi, come quella sull’autonomia – proprio quella tanto difesa di fronte alle proteste degli studenti! – non è stata approvata, nonostante il termine tassativo che il Parlamento stesso si era dato; la stessa fine ha fatto quella sul dottorato di ricerca. In ogni caso, l’autonomia è già sancita dal 1989, e dunque essa attende solo di essere effettivamente applicata. Per quanto riguarda le leggi invece approvate, c’è da chiedersi se ci sarà una reale volontà di tradurle in pratica e di farne buon uso: in tal senso, la speranza è che non facciano la stessa fine della 382, largamente disattesa.

C'è dunque un problema di capacità e disponibilità alla recezione dei cambiamenti. Si ha l’impressione che esistono situazioni pronte all’autonomia e anche disposte a utilizzare questo margine di azione per effettive sperimentazioni e innovazioni accanto ad altre molto più refrattarie. Il problema delle risorse economiche disponibili in un dato contesto influisce probabilmente sulla maggiore o minore disponibilità a rimanere più legati all’Università tradizionale o viceversa a cercare forme di maggiore coordinamento col territorio e le imprese. Ma non crediamo di dire un’enormità affermando che oltre a questo manca una cultura dell’autonomia, manca una capacità di pensare a medio-lungo periodo, di intuire la direzione del cambiamento, manca decisione nello smantellare strutture legate alla presenza di vere e proprie corporazioni universitarie, impermeabili alle innovazioni scientifiche, didattiche, partecipative. La vicenda degli statuti per la quale abbiamo elaborato un appello sottoscritto da diversi docenti e studenti, è particolarmente istruttiva: nonostante tale diritto sia sancito da quasi tre anni, poche sono le università che si sono date statuti autonomi; quasi nessuna si è particolarmente distaccata da visioni tradizionali dell’organizzazione universitaria, la stagione degli statuti rischia di diventare l’ennesima occasione perduta.

La nostra riflessione, scandita da occasioni di verifica e di studio quali tre convegni su temi universitari organizzati tra il ‘90 e li ‘91, si è incentrata ultimamente su un problema che riscontriamo con preoccupazione. Ci sembra cioè che aldilà del numero o della bontà delle leggi approvate o delle iniziative autonomamente assunte, non sia del tutto chiaro il modello di Università cui si vuole tendere. Diverse sono le posizioni che convivono e non si allinea e non si delinea un quadro chiaro e globale delle finalità, delle caratteristiche fondamentali, delle metodologie che lo studio universitario deve comunque comportare rispetto ad altre agenzie formative.

Dal punto di vista della realtà studentesca, notiamo, da un lato, un desiderio di vivere meglio l’Università; c’è una lucida consapevolezza delle sue carenze, una limitata volontà di partecipazione e protagonismo che non trova sbocchi. Dall'altro, vi è una diffusa indifferenza, una incapacità di analisi che vada oltre la mera rivendicazione di migliori strutture – del resto legittima –, una lamentosità non accompagnata da un senso di responsabilità personale e collettiva; addirittura, in certe situazioni di disagio cronico, si punta al ribasso, nell’idea fuorviante che, in cambio di una minore serietà del sistema formativo, si possa ottenere un più agevole curriculum di studi. Pensiamo alla situazione degli esami!

Prospettive possibili

Una tale situazione richiede da parte nostra un’attenzione ancora maggiore sui temi universitari.

Innanzitutto, la confermata centralità dell’istituzione universitaria non può e non deve significare il ritorno alla logica del prolungamento forzato dell’istruzione. Essa significa una reale necessità di cultura, formazione di base e al metodo di studio, ricerca scientifica, come attrezzatura indispensabile per la vita professionale e come elemento di reale arricchimento per quella personale e sociale.

Occorre oggi ripensare l’Università alla luce delle sue finalità fondamentali: se le finalità sono ancora quelle di offrire un insieme di cultura, ricerca scientifica, acquisizione di saperi utili alla professione, occorre porre mano a una verifica globale che abbia come principali punti cardine: l’efficienza delle strutture, la qualità dell’offerta didattica, la possibilità di accedere alla ricerca per gli studenti, la serietà e l’articolazione della valutazione dello studio, la partecipazione formale e informale di tutte le componenti al processo di apprendimento e alle decisioni. Cose non certo nuove, sulle quali la nostra riflessione degli ultimi anni si è più volte soffermata. E se insistiamo sulla qualità della didattica, non vogliamo certo legittimare una pericolosa liceizzazione dell’Università: didattica, ricerca, approfondimento culturale non possono essere scissi.

I nuovi elementi di riforma, aldilà di un reale rischio di frammentazione legislativa, possono rientrare in questo modello. Eppure, c’è chi sostiene – non senza qualche ragione – che i nuovi cicli brevi abbiano poco a che fare con l’Università: essi sarebbero normali corsi professionali o, peggio, soluzioni ibride. Non addentrandoci nel merito, riteniamo però che l’Istituzione dei cicli brevi sia un passo avanti nel sistema di formazione post-secondario e colmino una lacuna di esso. Essi però non possono essere istituiti senza una seria programmazione e senza una capacità di interazione con l’istituzione universitaria propriamente detta. I cicli brevi dovranno offrire alcuni elementi di formazione fondamentale su cui costruire curricula maggiormente professionalizzanti in rapporto con il territorio.

Se questi si presentano come segnali di speranza per un migliore assetto dell’Università, siamo ancora in alto mare riguardo a tre grandi questioni già menzionate: la cultura dell’autonomia, la creazione di una cittadinanza universitaria, l’appuntamento con l’Europa. Sul primo punto, temiamo che sia in atto un’ingiustificabile resistenza verso ogni possibilità di innovazione che faccia perno sulla responsabilità degli atenei. In questo senso, l’ideazione e l’approvazione di nuovi statuti è ancora una possibilità tutta da verificare ma che rischia di essere l’ennesima occasione perduta. I pochi passi avanti sembrano dettati più dalla preoccupazione di assicurarsi convenzioni con le imprese che dalla reale volontà di miglioramento. E dove tale rapporto è più arduo da instaurare, per esempio nel Mezzogiorno, si rischia di assecondare una logica attendista che non fa che allargare il gap di molte università del mezzogiorno.

La cittadinanza universitaria è uno dei problemi che più abbiamo affrontato nella Tesi. Crediamo importante affermare la necessità di una nuova fase dell’impegno degli studenti. Se è legittimo, come abbiamo sempre fatto, pretendere dall’Università la creazione di spazi di micro e macro partecipazione, di decisione democratica, di controllo sulla ricerca e sulla didattica, siamo altresì convinti che occorra uscire da logiche rivendicazioniste. Occorre abituarsi a una partecipazione basata sull’autonoma capacità di aggregazione, di collaborazione tra le associazioni, di tutela dei diritti attraverso la propria responsabile azione di vigilanza. Se da un lato lamentiamo la mancanza di un riconoscimento a livello nazionale di un interlocutore studentesco – che crea le impasse tipici di movimenti come la pantera – dobbiamo riconoscere con amarezza e per esperienza diretta, che è ancora molto difficile trovare coesione tra le diverse realtà studentesche, così come notiamo una scarsa disponibilità degli studenti stessi ad interessarsi dei problemi universitari, anche se non mancano importanti forme di impegno. Una società civile universitaria capace di vivere con intensità la vita degli atenei, di prendere posizione senza cadere in logiche movimentiste, capace di prevedere più stringenti forme di dialogo con i docenti e con le istituzioni è l’obiettivo su cui lavorare oggi. Tutto questo non mette in secondo piano ma anzi rafforza l’importanza della partecipazione agli organi di gestione della facoltà e degli atenei, sul quale tante volte ci siamo soffermati.

Infine, l’appuntamento con l’Europa: atteso o temuto, cercato o subito, è ormai alle porte. Ci pare che ci sia verso questo passaggio un’attesa millenaristica, nel bene e nel male. In realtà, ci accorgeremo dei cambiamenti quando sarà forse troppo tardi per delineare risposte adeguate. Non sapendo cosa significherà esattamente sul piano culturale e universitario l’apertura dei mercati, occorre attrezzarsi sui punti che abbiamo citato e, soprattutto, occorre aprirsi, a tutti i livelli, alle altre esperienze universitarie continentali per intuire ed avviare le possibilità di cooperazione e di interscambio. Così come occorre un più stretto rapporto tra le istituzioni europee, specialmente negli organismi preposti alle questioni giovanili, e sistema universitario; la riforma del Trattato di Roma non può che aiutare. Anche a livello di partecipazione, sono da promuovere ancora di più le forme di coordinamento nazionale e internazionale studentesco e giovanile: ma per l’Italia questa sfida rischia di essere perduta in partenza senza la creazione di organismi locali e nazionali che possono costituire un interlocutore giovanile e studentesco rispetto alle istituzioni. Eppure, i disegni di legge per coordinare le politiche giovanili e per favorire i coordinamenti giovanili e studenteschi sono stati fatti, hanno trovato assenzo da parte di tutti i gruppi parlamentari da tempo, e non si capisce come mai non vengano neppure messi all’ordine del giorno delle camere.

Infine, vogliamo dire qualcosa sull’impegno dei cristiani. Il problema non è quello di riempire con proprie strutture più o meno confessionali le carenze dell'università; anche se è positivo che siano forme di autorganizzazione studentesca, purché non significhino un’indebita occupazione di spazi propri. Il vero problema, il più ovvio, è che la comunità cristiana, gli studenti e i docenti cristiani, siano in prima persona disposti ad occuparsi dei problemi universitari, coniugando l’individuazione di strategie e strumenti di riforma con finalità formative dell’università che siano sempre rivolte a una crescita culturale ed umana dell’universitario. Va aggiunto poi che una concezione dell’Università familiare alla riflessione dei cattolici – e non solo – come quella che della “comunità universitaria” può rilevarsi ancora oggi feconda per il futuro della nostra Università, se opportunamente contestualizzata e accompagnata da strumenti adatti all’università di massa. Un'ulteriore sfida posta alla coscienza credente riguarda la necessità di un rinnovato dibattito etico su questioni scientifiche e culturali che hanno nell’Università un luogo primario di applicazione, a cominciare dalla manipolazione genetica fino alle questioni dell’ambiente. Allargando però lo sguardo anche a ciò che di positivo e progettuale per la società in cui viviamo può provenire dalla cultura universitaria: pensiamo al contributo delle scienze umanistiche e di quelle sociali, giuridiche ed economiche all’attuale dibattito sul confronto tra culture, sulla storia europea, sulla società multietnica, sullo sviluppo economico.

Conclusioni

Siamo alla fine della nostra introduzione, che ci illudiamo non sia stata molto noiosa. Aver letto a due voci questa relazione non ha certo voluto essere uno stratagemma comunicativo: piuttosto, abbiamo cercato di offrire un piccolo segno di quella compresenza di differenze che prima di essere una speculazione teorica è nella realtà della vita e nelle caratteristiche di fondo della nostra associazione, a partire dalla paritarietà delle sue cariche formali.

Non è il caso di dilungarsi in conclusioni. Davanti a noi ora sta il Congresso, questo momento alto di riflessione e di confronto che scandisce la nostra vita federativa passando attraverso la sintesi personale di ognuno. Non è azzardato affermare che sentiamo accanto la prossimità “arido come terra riarsa” i sempre nuovi segreti della Sapienza, incarnatasi nel tempo in Cristo Gesù. È lo Spirito il vero protagonista dell’azione di Dio nel mondo; è Lui che ci guida alla scoperta di nuove vie per un’autentica promozione dell’uomo: noi non siamo che servitori di questo soffio santificante, umile narrazione umana di questa voce. Sentiamo perciò la necessità di porre l’accento sulla fiducia come atteggiamento di fondo della nostra spiritualità, insieme a quella speranza su cui ci siamo tanto soffermati nello scorso Congresso, non per crearci false sicurezze di fronte ai problemi, né per leggerezza o scarsa preoccupazione per le difficoltà che la stessa Chiesa incontra nel suo annuncio e nemmeno per mancanza di sensibilità verso il dolore del mondo: ma perché sappiamo che Dio non dimentica mai il suo popolo, per il quale ha offerto il Figlio. Come dice il profeta Isaia: “Se anche una madre si dimenticasse suo figlio, io non ti dimenticherò mai”. Siamo ritenuti nella memoria amorosa e patri-materna di Dio, anche quando essa si fa silenzio. A pochi giorni dalla Settimana Santa e dalla solennità della Pasqua, dopo aver riflettuto a Camaldoli sul Triduo Pasquale e sulla perenne promessa del Signore ad Israele, come non affidarci a Colui che è presente in mezzo alla sua Chiesa con la sua potenza salvifica? Non c’è fatalismo: siamo anzi chiamati a coltivare con impegno e pazienza quel germoglio del Regno radicato nel mattino di Pasqua ma i cui frutti maturi attendiamo alla fine dei tempi. Vivere la nostra missione con fiducia, sapendo condividere con ogni altro le notti oscure della vicenda umana, è attuazione della carità. Testimoniare una gioia autentica è corrispondere alla nostra vocazione. Con questi sentimenti iniziamo allora il nostro 51mo Congresso Nazionale. Vogliamo anche esprimere, come Presidenza Nazionale quasi totalmente uscente, un augurio sincero a quanti iniziano o continueranno a lavorare, a tutti i livelli, dentro questo grande gruppo di amici che è la nostra Federazione e ringraziare di cuore coloro che ci hanno accompagnato in questo cammino con la loro amicizia, i loro consigli, le loro critiche – spesso fondate – e la loro preghiera. Un ricordo affettuoso va a Don Agostino Bonivento con cui abbiamo cominciato la nostra esperienza in FUCI e un augurio sincero va a Don Mario Russotto che ha ereditato il servizio presbiterale. Un congresso vuole essere un momento di crescita per tutti coloro che vi partecipano. Lo sarà sicuramente anche questa volta, se ognuno lo saprà accogliere come un dono. Grazie

Patrizia Pastore
Sandro Maria Campanini

Presidenti Nazionali FUCI


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE AL 51mo CONGRESSO

Sommo Pontefice informato Congresso che Federazione Universitaria Cattolica organizza a Salerno sul tema “Distanza e prossimità verso l’altro tra differenze e nuovi soggetti” esprime compiacimento per iniziativa intesa at esaminare con cristiana consapevolezza et solidale impegno problemi che oggi emergono dalle prospettive dei futuri rapporti tra popoli et nazione specialmente in Europa et mentre auspica che dà presente Congresso scaturiscano chiare indicazioni per gruppi giovanili che si preparano al servizio della comunità nella cultura, nella educazione, nelle professioni, invia at relatori et partecipanti tutti speciale benedizione apostolica.

Cardinale Angelo Sodano

Segretario di Stato di Sua Santità